Due uomini siedono su una panchina nei pressi del Lincoln Memorial, a Washington, in un'umida giornata di pioggia. Parlano come due vecchi amici, ma in realtà non si sono mai visti fino a quel giorno. Il più giovane è il procuratore distrettuale di New Orleans, Jim Garrison; l'altro, un ex rappresentante dei servizi segreti governativi degli Stati Uniti, che si rifiuta di declinare la propria identità. Il primo cerca la verità, il secondo non vuole rivelarla. Entrambi membri dello stesso apparato governativo, sanno che ciò che cercano o difendono è pericoloso. Siamo nel 1965: sono passati due anni dall'assassinio di John Fitzgerald Kennedy, a Dallas. Chi o che cosa si cela dietro quella morte? Ma soprattutto, perché quella morte ha finito con l'assumere una dimensione necessaria e quasi inevitabile, agli occhi di chi, come i due uomini che stanno uno accanto all'altro su una solitaria panchina della capitale americana, non si è passivamente adagiato sulle conclusioni emerse dalle indagini ufficiali? La verità è necessaria oppure è qualcosa che va subordinato al superiore interesse di un apparato, che di quella stessa verità dovrebbe di fatto essere, nei confronti dei cittadini, garante e tramite? Quale confine divide la ragione dal suo contrario? E soprattutto, quanto può essere ambiguo e impalpabile quel confine?
E' lungo questa inesplorata terra di nessuno, che si muovono le nostre storie. Ognuna delle quali s'è rivelata a suo modo esemplare nel proporre una particolare variante di lettura del conflitto che, da sempre, ha opposto e continuerà a opporre il desiderio di certezze presente nell'animo della gente comune agli oscuri meccanismi entro i quali si distilla l'esercizio del potere.
JFK di Oliver Stone racconta con la stessa solenne cadenza di una tragedia shakesperiana la morte del più carismatico capo di stato dei nostri tempi, ricordandoci come la Storia sappia ciclicamente coltivare, attraverso il tempo, le sue logiche perverse. Il regicidio, lo sappiamo, è sempre esistito: Kennedy cade, come Giulio Cesare, sotto gli occhi della folla in una lontana città del Texas; e poco importa che Dallas non sia il castello di Elsinore di Amleto o quello di Chinoon dove Enrico II d'Inghilterra e Eleonora d'Aquitania giocano l'eterno gioco del potere (Amleto di Franco Zeffirelli; Il leone d'Inverno di Anthony Harvey): la morte e l'inganno saranno sempre i compagni di strada di quanti ambiscano al dominio dell'uomo sull'uomo o vogliano far giustizia di chi se ne sia impossessato ingiustamente.
L'ambiguo rapporto che, da sempre, la natura umana ha stretto col potere, è un tema che il cinema ha costantemente affrontato, prima tracciandone o anche solo immaginandone le conseguenze estreme; poi affacciandosi direttamente sullo scenario di un'Apocalisse che, giorno dopo giorno, è sembrata farsi sempre più incombente.
Mistero e fato si intrecciano nel presagio della fine che grava sul Settimo sigillo di Bergman, dove il cavaliere di ritorno dalle crociate cerca una risposta all'inconoscibile sfidando la morte in una coraggiosa partita a scacchi che ha come posta la propria vita. E' in fondo, a ben guardare, lo stesso scenario all'interno del quale, secoli dopo, si muoveranno i personaggi reali e immaginari dei Ragazzi di via Panisperna di Gianni Amelio e di A prova di errore di Sidney Lumet. La seduzione della conoscenza, così come un malcelato delirio d'onnipotenza possono ugualmente spalancare l'abisso.
Abisso del cuore e della coscienza, prima di tutto. Music Box di Costa-Gavras, Il verdetto ancora di Lumet, Il dubbio di John Patrick Shanley, Crimini e Misfatti di Woody Allen, ne riflettono un'eco minore, ma non per questo meno lacerante. I protagonisti delle singole vicende si confronteranno infatti con realtà così ambigue ed insospettabili da vedersi costretti a scelte estreme, dove il peso e il volto della verità risulteranno, alla fine, quasi insostenibili.
Di tale meccanismo, l'ambizione è parte sostanziale. Ce lo ricorda Billy Wilder col suo capolavoro meno amato: L'asso nella manica; una prova di regia ancor oggi di sconcertante attualità nel suo riuscito tentativo di mettere alla gogna l'insensatezza di un giornalismo vittima cosciente della propria sete di sensazionalismo.
Il lato oscuro della mente umana sembra, in fondo, inseguire il cinema da sempre. Sia quando si pone invisibilmente a servizio della macchina del potere (Senza via di scampo di Roger Donaldson), sia quando muta le storie in vere e proprie discese agli inferi. Il sonno della ragione genera mostri, veri o immaginari poco importa. E ai mostri – si annidino questi nella memoria degli uomini (Shutter Island di Martin Scorsese; L'arcano incantatore di Pupi Avati) o nel ventre di un'astronave (Alien di Ridley Scott) –, non si può sfuggire. I mostri, immaginari o veri, ti vengono sempre a cercare (Nosferatu di Werner Herzog, Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio). Fanno parte del nostro destino: prima o poi dovremo imparare a riconoscerne le ombre e l'odore, dovremo guardarli negli occhi. I mostri sono le nostre quotidiane paure, il dolore che la sorte ci costringe a disseminare lungo i giorni di tutta la nostra esistenza. Giusto? Sbagliato? Le risposte – almeno quelle del cinema –, sono ambigue quanto le domande. E forse per questo, a leggerle sullo schermo, risultano così stranamente seduttive.
Come spesso accade nella vita, dietro una verità, strano a dirsi, c'è sempre un'altra verità, e poi un'ultima verità di cui il tempo, fatalmente, farà giustizia. Attraversiamo la storia nel tentativo di esserne testimoni e capire, come il disilluso commissario Ingravallo impersonato da Germi in Un maledetto imbroglio. Scrutiamo la superficie indecifrabile degli eventi, continuando ad interrogarci sulla morte di un poeta (Pasolini: un delitto italiano di Marco Tullio Giordana) o sul tirannicidio inteso come estremo atto di giustizia (Ogro di Gillo Pontecorvo). Domande che non lasciano spazio ad alcuna parvenza di serenità. E' uno dei volti della Storia: quella che Raymond Queneau vedeva semplicemente come la scienza dell'infelicità degli uomini.
Andrea Baldinotti e Daniele Morandi